Editoriale

Quanti carro armati servono per la terza guerra mondiale

Siamo a poco più di un mese dal primo anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina e stiamo ancora a chiederci donnaguerrafino a che punto bisogna armare l’Ucraina. Dal vertice di venerdì 21 gennaio a Ramstein del cosiddetto “gruppo di sostegno”, emergono i dubbi nell’Alleanza di fronte a una inevitabile escalation militare che ormai sembra scontata dopo un inutile periodo di scarsi combattimenti che sarebbe dovuto servire per tentare di individuare una via di uscita da questo pantano. E invece siamo qui chiederci se sia il caso o meno di inviare i Panzer tedeschi Leopard che Volodymyr Oleksandrovyč Zelens’kyj continua ossessivamente a chiedere agli Usa e alla Germania in maniera particolare. Il problema, oltre ad essere militare e strategico, è anche politico e diplomatico. L’invio di armi che possono favorire l’attacco in territorio russo e dare la possibilità all’Ucraina di colpire la Crimea può rappresentare un punto di non ritorno nel coinvolgimento della Nato e una definitiva escalation militare.

Quando il 24 febbraio 2022 è cominciato tutto, i pochi osservatori e commentatori che hanno avuto il coraggio di distaccarsi dall’analisi mainstream dell’invasione russa tra le altre cose sottolineavano anche la necessità di porsi un obiettivo preciso nel coinvolgimento nel conflitto. In pratica l’invito era a porsi una semplice domanda: “cosa Travel,Painted,Map,With,The,Pin,,Romaniaintendiamo per sconfitta della Russia?” Ritornare alla situazione antecedente l’invasione? Questo significava mantenere sotto il controllo russo una parte del Donbass e lasciare a Putin la Crimea. Oppure respingere i russi oltre il confine dell’intera Ucraina mantenendo sempre la Crimea di fatto annessa alla Russia. Oppure ancora spingersi anche ad invadere la Crimea per riportarla sotto il controllo ucraino. I tre scenari non sono equivalenti né sul piano diplomatico né su quello delle conseguenze belliche. Per dirla chiaramente un conto è il Donbass dove Putin difende una minoranza russofona all’interno dei confini di uno stato sovrano, un conto è invadere un territorio che è stato annesso alla Russia in virtù di un referendum (ancorché non riconosciuto dalla comunità internazionale) il 16 marzo 2014. Gli abitanti della Crimea sono per il 58,5% di etnia russa, il 24,4% di etnia ucraina e il 12,1% sono tatari. Il referendum vide il 95,4 per cento votare a favore del ritorno alla Russia. Vale la pena ricordare, a tal proposito, che la Crimea il 19 febbraio 1954 venne donata dall’allora leader sovietico Nikita Chruščёv all’Ucraina in segno di riconoscimento per commemorare il 300° anniversario del trattato di Perejaslav tra i cosacchi ucraini e la Russia. Si badi bene, al tempo l’Ucraina era una delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e non uno stato pienamente autonomo. La Crimea è, inoltre, la sede di una delle più importanti basi navali russe. Da questi dati risulta del tutto evidente che attaccare o meno la Crimea fa tutta la differenza del mondo. Per contro proprio il riconoscimento dell’annessione della Crimea alla Russia ed il Leopard_2_4RKlF8iriconoscimento da parte dell’Onu del risultato del referendum del 2014 potrebbe essere una delle possibili concessioni da proporre a Putin affinchè possa evitare di presentarsi al cospetto del parlamento di Mosca e all’opinione pubblica russa come il leader che ha perso la guerra in Ucraina.

Il meeting di Ramstein non solo non ha definito strategie precise per il prossimo futuro ma ha sancito una spaccatura tra Paesi “atlantisti” rappresentati dalla riluttanza all’invio dei tank da parte della Germania e i Paesi “baltici” con in testa la Polonia che spinge per un più massiccio impegno militare. Le due posizioni fondano le radici nella storia recente dell’Europa e trovano alimento nelle paure che l’est Europa continua a vivere al cospetto dell’invadenza e della protervia della politica russa. Gli equilibri anche all’interno dell’Europa si stanno ridisegnando e se, come sempre è successo nella storia, il peso militare determina anche quello politico la Polonia, in virtù di un riarmo senza precedenti, vedrà il proprio peso politico aumentare considerevolmente nei prossimi anni. Non è una bella prospettiva per le idee progressiste. Se fino a questo momento si era riusciti a contenere i Paesi del Gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria), quando specialmente Polonia e Ungheria andranno all’incasso del contributo dato all’accoglienza dei profughi ucraini e al sostegno alle forze armate di quel Paese sarà ben difficile ignorare le loro ragioni.

Insomma pare proprio che nulla o poco resterà invariato negli assetti europei. La speranza è che, al di là delle divisioni e delle contrapposizioni dei rispettivi interessi non si perda di vista il fatto che se c’è una cosa che questa crisi ci insegna è che la coesione europea è sempre più indispensabile per inserirsi nelle dinamiche globali con un peso specifico tale da poter essere determinanti negli equilibri globali e non dover continuare a subire le conseguenze delle strategie e degli interessi delle grandi potenze mondiali.

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