Editoriale

Il pacifismo rimosso in Russia

L’invasione su larga scala dell’Ucraina del 24 febbraio 2022 ha scatenato un’ondata di proteste in Russia. Per qualche settimana, migliaia di persone si sono riversate nelle strade e nelle piazze per protestare contro l’aggressione russa in maniera spontanea. Prive di struttura organizzativa, le proteste si sono gradualmente affievolite sotto la brutale repressione delle autorità. Nei mesi a venire, alle proteste di massa si è sostituito un attivismo contro la guerra di tipo performativo e simbolico. Guerrilla activism e micro proteste sono sorte in tutta la Russia: volantini, graffiti, nastri, performance artistiche, statuette, media di diversa natura. Azioni orizzontali, anonime, senza leader né masse, volte a ribadire l’esistenza di un dissenso sotterraneo, che fatica a emergere in un fronte coeso, a causa del lungimirante e graduale processo di smantellamento delle infrastrutture della società civile operato dal regime di Putin dal 2000 a oggi. Pur nei loro limiti, le proteste contro la guerra di questi mesi impongono una riflessione sul rapporto della Russia con il pacifismo.

Pacifismo rimosso

La conformazione della società civile nella Russia sovietica era diversa rispetto a quella odierna. Dalla Rivoluzione d’ottobre in poi, la Russia non ha mai ospitato un movimento pacifista di massa. Un movimento, cioè, che rifiuti la guerra in ogni sua accezione, che chieda il disarmo e la smilitarizzazione della società e degli apparati di difesa, e che persegua l’azione nonviolenta e una risoluzione negoziale dei conflitti sia in politica interna che in politica estera. Il pensiero di Lenin sulla guerra, notoriamente, non problematizzava la guerra in assoluto, bensì la guerra imperialista reazionaria. Come documentò Paul Leblanc nel suo Lenin e il partito rivoluzionario, “La parola d’ordine ‘pace’ è sbagliata”, diceva Lenin nel 1914 a una conferenza intitolata “Il proletariato e la guerra”, “il motto è ‘trasformare la guerra nazionale in guerra civile’”, ossia in guerra di classe.

In epoca sovietica, numerose associazioni rette dal PCUS organizzavano la vita sociale e politica dei cittadini, e ne orientavano le cause. Fra di loro, molte promuovevano la “pace fra i popoli”. Ciononostante, non si trattava di associazioni pacifiste, bensì rivolte a compattare la coesione delle nazioni e delle repubbliche dell’URSS. Queste organizzazioni individuavano in attori esterni, come gli Stati Uniti o la NATO, gli aggressori contro cui difendersi, mentre l’URSS veniva presentata come esempio virtuoso in grado di unire nazioni diverse sotto un sigillo di pace.

Nel 1950 venne fondato il Consiglio mondiale per la pace, su iniziativa del Cominform. I vertici sovietici intendevano promuovere il disarmo degli Stati Uniti e condannarne “l’imperialismo bellicista”, al tempo in cui gli USA disponevano di un arsenale nucleare ben superiore a quello dei sovietici, i quali avevano testato la prima bomba atomica nel sito di Semipalatinsk, in Kazakhstan, appena un anno prima. L’allineamento alla politica estera sovietica del Consiglio era evidente: portò avanti un’ingente campagna contro l’aggressione nel Vietnam, ma, in seguito, non si espose in merito all’invasione sovietica della Cecoslovacchia del 1968. Di lì in poi, numerose organizzazioni internazionali pacifiste presero le distanze dal Consiglio.

Negli anni Novanta, la maggior parte delle organizzazioni a supporto della “pace fra i popoli” fu sciolta nel processo di riorganizzazione degli apparati statali, mentre i conflitti in Cecenia minavano la stabilità e la sicurezza del paese. Il Comitato delle madri dei soldati, fondato nel 1998 e oggi solidamente allineato al regime, denunciò gli abusi sistematici nell’esercito russo, in particolare nei confronti dei soldati di leva, che vennero documentati anche da Anna Politkovskaja nel suo Diario russo. Non si può tuttavia ascrivere queste istanze al pacifismo: si trattava di azioni di denuncia contro la sistematica violazione dei diritti umani all’interno degli apparati statali, senza un dibattito sul ruolo dell’esercito e della leva, o su un possibile processo di smilitarizzazione.

Lo stesso Lev Tolstoj, forse il maggiore esponente del pensiero nonviolento e antimilitarista in Russia, viene oggi ripreso e celebrato nel discorso pubblico per le sue riflessioni di natura morale e religiosa, o in maniera acritica e strumentale. I suoi scritti sulla violenza politica e sulla necessità di opporvisi, sul rifiuto di armi ed eserciti, vengono sistematicamente trascurati. Il pensiero pacifista russo di ispirazione tolstoiana sviluppatosi nel diciannovesimo secolo era fortemente radicato nella spiritualità ortodossa e nelle sue pratiche quotidiane. L’ascesa di Putin, però, ha siglato un nuovo patto tra Stato e Chiesa ortodossa, per cui quest’ultima ha il ruolo cruciale di assecondare e consolidare la nuova identità della Russia putiniana.

Militarismo identitario

Proprio il regime di Putin, infatti, ha contribuito ad allontanare ancora di più il pacifismo dall’orizzonte russo. Nel passaggio fra epoca sovietica ed epoca post-sovietica, la centralità del militarismo è rimasta in soluzione di continuità. Il militarismo ha avuto un ruolo chiave nella costruzione di una nuova coesione sociale e nel riscatto della memoria storica collettiva. Dalla reintroduzione della pomposa parata militare in onore della vittoria nella Grande Guerra Patriottica e della memoria dei veterani, all’istituzione di organizzazioni paramilitari per bambini e ragazzi, la glorificazione del mondo bellico si è imposta come narrazione egemone.

La rimozione della tradizione pacifista da un lato, e la convergenza identitaria attorno alla retorica bellicista e a un passato bellico romanticizzato dall’altro, hanno determinato anche la natura dell’opposizione all’invasione dell’Ucraina. Sarebbe infatti fuorviante definire queste mobilitazioni “pacifiste”. La maggior parte delle istanze, sorte in opposizione all’invasione russa, non ha invocato il disarmo e la smilitarizzazione, una soluzione diplomatica del conflitto, e i negoziati. Ha chiesto, invece, l’immediata sospensione dell’offesa russa e il rispetto delle norme del diritto internazionale, manifestando il proprio sostegno all’Ucraina e alla resistenza armata del suo popolo. Vi è una radicale differenza fra questo tipo di istanze e le posizioni espresse dalle reti pacifiste italiane ed europee. Queste ultime sono state criticate da più parti per via del mancato sostegno alla fornitura di armi al popolo ucraino, il quale, secondo questo punto di vista, finisce in ultima analisi con l’avallo dell’aggressione di Putin e con il sacrificio della sovranità dello stato ucraino in nome di una pace che implica uno sconvolgimento geopolitico radicale e sanguinoso. Pertanto, sarebbe più corretto definire le mobilitazioni di questi mesi “contro la guerra” anziché “pacifiste” e, nello specifico, non contro la guerra in assoluto, né critiche della centralità del militarismo nella politica interna ed estera del governo russo, ma contro la guerra di Putin in Ucraina.

Pacifismi e non, oggi

Esempio cardine di gruppi insorti in opposizione alla guerra di Putin è la Resistenza femminista contro la guerra, un network che unisce gruppi femministi da tutta la Russia, nato immediatamente dopo l’invasione. Nel loro manifesto, pubblicato il 25 febbraio 2022, la Resistenza femminista aveva individuato il legame ideologico fra lo sciovinismo machista delle politiche interne di Putin e l’uso della forza in politica estera, auspicando un superamento di questo modello. Nelle settimane successive, il network ha aggiunto chiarificazioni in merito alla propria posizione sul pacifismo. La Resistenza femminista contro la guerra si riconosce in un “pacifismo consapevole” (osoznannij pacifizm), per cui “la difesa da un’aggressione militare non può essere nonviolenta”. Pertanto, supporta in toto la resistenza ucraina, ed è favorevole alla fornitura di armi da parte dei governi occidentali. Allo stesso tempo, però, la Resistenza solleva un punto cruciale: la Russia deve essere smilitarizzata, e questa smilitarizzazione passa da due fronti. Sul fronte interno, si incoraggia la diserzione, si chiede il ridimensionamento della produzione industriale in ambito tecnico-militare e la riorganizzazione delle agenzie di pubblica sicurezza. Sul fronte esterno, la Resistenza condanna la vendita di armi alla Russia da parte di diversi paesi UE, tra cui l’Italia, anche dopo il pacchetto di sanzioni imposte alla Russia nel 2014, e chiede la cessazione immediata di questi accordi. Analogo è l’appello dell’organizzazione Vesna, firmato da trentasei gruppi, in cui vengono fornite istruzioni a militari e riservisti su come disertare minimizzando il rischio penale.

È evidente come queste posizioni si distacchino dal pacifismo “tolstoiano” e si calino invece in un contesto specifico, che diventa il punto di partenza per la formulazione di un’ideologia situata e concreta. La tradizione pacifista viene esplicitamente risemantizzata alla luce dell’attualità, rifiutando un processo inverso. Non a caso, lo stesso manifesto della Resistenza si colloca entro la sfera semantica dello scontro: la resistenza contro la guerra, una guerra alla guerra.

Diverse sono, invece, le proteste contro la mobilitazione militare scoppiate nelle ultime settimane in diverse regioni periferiche della Russia, come Dagestan, Jacutia e Burjatia. Le comunità locali hanno protestato contro le autorità per via delle modalità di arruolamento, in massa e senza aderire a criteri di età e addestramento. Una protesta inevitabilmente legata alla percezione locale delle relazioni centro-periferia, per cui il centro ha conservato un atteggiamento coloniale ed estrattivista attraverso secoli e diverse forme di governo.

In un’analisi su Russia e pacifismo risalente al 2018, Ivan Preobrazhenskij sosteneva che un conflitto militare su larga scala sarebbe stata l’unica cosa in grado di mettere in discussione l’egemonia del sentimento militarista in Russia, che gode di un supporto perlopiù passivo, spinto dalla natura autoritaria e aggressiva del regime che scongiura le istanze di opposizione. Riletta oggi, questa previsione rivela tutta la sua potenza: il regime di Putin deve ora contenere una paura che serpeggia lungo tutti gli undici fusi orari del paese, e che può avere il potere di istigare una più ampia riflessione sul bellicismo putiniano, e una rivalutazione del militarismo egemone.

Maria Chiara Franceschelli (Valigia Blu)

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