Cultura

La settima arte: Craxi

Il 19 gennaio del 2000 si spegneva Benedetto Craxi detto Bettino in quel di Hammamet. Quel giorno Giorgio Forattini pubblica una delle sue migliori vignette. Si vedono un paio di stivali posati sulla battigia, sullo sfondo il sole al tramonto. E’ l’emblema della fine di un uomo forte ma anche la fine del sogno del socialismo rampante con il sol dell’avvenire al suo apogeo. Difficile fare i conti con un personaggio così controverso.

Venti anni sono un periodo abbastanza lungo da concederci uno sguardo più ampio dell’attualità ma non consegnano il personaggio alla storia. Cerca di farlo Gianno Amelio con il suo film “Hammamet”. Già il titolo ci suggerisce che si parlerà dell’uomo e non del politico, l’epoca dell’esilio (latitanza sarebbe più corretto) tunisino è quella della parte più dolorosamente privata della vita di Craxi mai nominato peraltro nel film dove è chiamato sempre Presidente.

Qui si è già lasciato alle spalle le vicende politiche, le glorie e le infamie, le gioie e i rancorosi dolori di una carriera che fu segnata da un travolgente successo al quale, inevitabilmente, seguì un altrettanto rovinosa caduta. Craxi è in fuga dalle sentenze giudiziarie e forse anche da se stesso. Di Ghino di tacco, per esempio, nel film non v’è traccia. La grinta e la sagacia di quel personaggio ad Hammamet non vi arrivò mai. E non v’è traccia di quella sorta di corte dei miracoli che fu il mondo socialista dell’epoca.

Non c’è per scelta del regista che ha voluto concentrarsi sull’uomo più che sul politico. Nessun riferimento, quindi, alle numerose visite per lo più segrete di uomini politici, imprenditori e affaristi di varia risma che hanno continuato a sfruttare le residue influenze dell’ex presidente del consiglio anche in terra d’esilio/latitanza. Così come non è sottolineata in nessun modo l’assenza dell’uomo che ne fu di fatto il successore nonché il miracolato da Craxi, Silvio Berlusconi.

Sua emittenza appare solo in una intervista trasmessa dalla TV, forse uno di quei canali televisivi salvati da una legge ad personam concessa proprio dal leader socialista non a caso definita Legge Berlusconi varata il 1º agosto 1985. Un film che vuole esplorare l’umanità del potente nel momento della caduta, della perdita dello scettro per dirla con le parole dello stesso Amelio che così ha presentato il suo film in un incontro con il pubblico che si è svolto a Latina domenica 12 gennaio. Amelio cita Shakespeare più che la politica dell’epoca, Re Lear più che Berlinguer o Martelli.

Per prendere le distanze dalle posizioni politiche di Craxi Amelio dice di aver utilizzato un espediente tecnico passando, nel momento in cui il leader socialista faceva i suoi proclami, dal 16 noni al 4 terzi. Lo prendiamo per buono, noi profani della settima arte. Ma è possibile astrarsi dalla storia per concentrarsi solo sull’uomo?

Molto difficile se non impossibile. Specialmente se lo schermo ci rimanda, fin dai primi fotogrammi, l’immagine di un Craxi talmente verosimile nelle sembianze ma anche nelle movenze (la mano destra si alza, le dita si muovono, esattamente come era solito fare Craxi per sottolineare passaggi importanti dei suoi discorsi) da risultare quasi un shock per lo spettatore.

In sala si percepisce una certa emozione nei primi minuti, il pubblico ha bisogno di un pò di tempo per entrare nella storia. E quando lo fa inevitabilmente è preso da una sorta di sindrome di Stoccolma, tende a solidarizzare con il carnefice, con l’uomo dimenticando le malefatte del politico. Questo anche grazie alla perfetta, forse troppo, prova attoriale di un immenso Pierfrancesco Favino.

L’enorme somiglianza con il vero Craxi in qualche modo condiziona emotivamente la visione del film, porta lo spettatore eccessivamente dentro l’uomo.

Capisco che è proprio ciò che Amelio cerca ma sarebbe stato meglio poter prendere maggiormente le distanze dall’uomo e valutare le sua storia con un po più di distacco. Anche perché i rimandi storici inevitabilmente ci sono. A cominciare dalla prima scena del discorso fatto al 49° congresso del PSI con quella emblematica scenografa piramidale architettata dal fido Panseca e dell’improbabile ed inverosimile dialogo con Vincenzo (Balzamo?).

Il vero Craxi non gli avrebbe mai parlato in quel modo e così lungamente in circostanze simili. Vincenzo peraltro rimane in filigrano in tutto lo svolgimento del film attraverso il personaggio del figlio interpretato dall’ottimo Luca Filippi (anche lui in sala domenica a Latina). Così come è del tutto irrealistico l’episodio della figlia che accompagna il padre ad un incontro con la sua amante storica venuta appositamente per un ultimo momento di intimità. E’ una narrazione delicata e tenue di una parabola universale-singolare sul declino, sull’ arroganza e cecità relazionale?

Un’audace mescolanza tra visione etnografica e ricerca estetica-metaforica (come mi suggerisce la mia amica Lavinia Bianchi)? Il film è lento, la narrazione non decolla completamente, raccontare l’uomo Craxi isolandolo dal contesto storico e politico dell’epoca è un tentativo sicuramente apprezzabile ma che non raggiunge pienamente il suo obiettivo. Troppo recenti le vicende narrate, troppo scoperta ancora la ferita per poterne trattare con il distacco cercato da Amelio.

Nell’ultima parte è straniante la scena felliniana del Bagaglino con gli attori comici che sberleffano Craxi per la gioia dei presenti e del pubblico a casa. Nel finale il ritorno al padre ha qualcosa di mistico con il camminare di Bettino tra le guglie del Duomo. Il film comincia con un triangolo e finisce con Bettino scalzo che torna al padre, chissà che in quel triangolo non manchi solo l’occhio.

 

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