Editoriale

Mors tua, vita mea

Domusnova è un comune italiano di 6.164 abitanti situato nella zona sud-occidentale della Sardegna, nella regione del Sulcis-Iglesiente. Nota per le grotte di San Giovanni è perciò spesso conosciuta come il paese delle grotte. All’interno del territorio comunale insiste il complesso nuragico di S’Omu ‘e S’Orcu. Fin qui i dati turistici ma Domusnova è conosciuta tristemente per l’ingombrante presenza della RWM, la fabbrica tedesca produttrice di armi, bombe terra-aria in particolare che sono quelle fotografate all’aeroporto di Cagliari Elmas mentre venivano caricate su aerei cargo con destinazione Arabia Saudita. Qualche tempo dopo le stesse, esplose, sono state fotografate tra quello che era rimasto di un ospedale di Medici Senza Frontiere in Yemen.

La fabbrica è un vero e proprio fortino del quale non si conosce neppure il numero degli occupanti, c’è chi dice 120 dipendenti, chi ne conta 200, chi arriva fino a 250 perché tiene conto di tutto l’indotto. A sentire le cronache giornalistiche, in paese hanno tutti la bocca cucita. Difendono con la fabbrica il lavoro di tanti e, in ultima analisi, l’intera economia della zona.

Chi parla, invece, è Marco Cuccu, assessore all’Urbanistica e consigliere comunale. «La Rwm è indispensabile per l’economia del paese. Per Domusnovas è una realtà fondamentale. Qui c’è disperazione e la fabbrica è l’unico sbocco. Noi siamo tutti per la pace ma dobbiamo anche vivere. E poi, diciamoci la verità, se le armi non le producono qui lo faranno da un’altra parte. Se uno stato ha un esercito è ovvio che investa sulla difesa. Nessuno costruisce bombe a cuor leggero, ma è costretto. Quando hai una famiglia da mantenere non puoi fare altrimenti».

E’ un discorso già sentito altre volte, la necessità di mantenere la propria famiglia, il lavoro che manca, se non lo facciamo noi comunque lo fanno altri, se gli eserciti ci sono qualcuno deve pur costruire armi. Una storia simile l’abbiamo già vista con la Valsella Meccanotecnica che fu un’azienda italiana tra i più grandi produttori di mine. Cessò la produzione nel 1994 dopo la moratoria del Governo Italiano contro le mine antiuomo, e nel 1999, dopo l’acquisizione da parte della Vehicle Engineering & Design (VE&D) s.r.l., poi divenuta Pro.De s.r.l. , fu trasformata ad azienda nel settore automotive. Prima che fosse una legge a mettere fine alla storia bellica della Valsella, però, ci pensarono gli stessi operai a contestare la natura produttiva della fabbrica anche a costo di perdere il posto di lavoro. Una delle protagoniste di questa battaglia fu Franca Faita nominata per questo Cavaliere della Repubblica. Quella che segue è la testimonianza ascritta dalla stessa Faita per un convegno sulla pace al quale non poté partecipare.

Care amiche, Cari amici,

sono Franca Faita. Mi dispiace molto di non aver potuto essere qui con voi a questo importante appuntamento odierno, a cui avevo volentieri promesso di esserci, perché ci tengo all’impegno della gente per la pace e il disarmo. Ho lavorato nella fabbrica di mine, la Valsella Meccanotecnica di Castenedolo, poco lontano da Brescia, dal 1967. Fino al 1980, la Meccanotecnica (la fabbrica si chiamava così allora) produceva televisori e mobili in plastica. A quell’epoca eravamo 200 dipendenti. La ditta ci informa che saremmo diventati un’azienda militare, incorporando la ditta Valsella con 60 dipendenti. Siamo così diventati la famigerata “Valsella Meccanotecnica”. Da allora, abbiamo iniziato a produrre le mine antipersona e gli stipendi aumentavano senza bisogno di fare scioperi o proteste. Siamo andati avanti per 10 anni con commesse grandiose. Quando le commesse finivano, nessun problema per noi: ci mettevano in CIG e l’azienda continuava a pagare i salari. Da parte sindacale, ad ogni incontro con la proprietà, chiedevamo: “Per chi sono tutte queste mine?”. La risposta era: “Segreto militare”. Si calcola che la Valsella, nella sua breve storia, abbia fatto oltre 30 milioni di mine! Un grande giorno è stato quello in cui sono stata chiamata dal dottor Gino Strada. Mi presentò una cassetta piena di mine dicendomi:

– “Le conosci?”.

– “Sì, le conosco”, risposi.

– “Ma tu sai cosa fanno?”.

– “Servono a difendere il territorio dal nemico”, risposi.

– “Cara Franca, queste mine stanno provocando tantissime vittime civili, che con la guerra non c’entrano, non c’entrano con la difesa del territorio. La famosa Valmara 69 è quella più bastarda: ce ne sono a migliaia nel Golfo e in tutto il mondo…”.

Tornando a casa, ho cominciato a pensare che dovevo fare qualcosa. II primo pensiero è stato quello di licenziarmi. Ma se io andavo via, la Valsella avrebbe continuato a produrre le mine e la SEI avrebbero continuato a riempirle. Da quel giorno, la mia vita è cambiata. Ho cominciato a parlarne con tutte le maestranze, a spiegare cosa facevano quei pezzi di plastica che noi avevamo prodotto. La risposta di tutti era: “Se non le facciamo noi, le fanno gli altri”.

Ecco che torna il vecchio ritornello sentito anche da Marco Cuccu che esprime un punto di vista largamente condiviso a Domusnova. E’ una forzatura ipocrita per nascondersi dietro a ragionamenti puerili e non affrontare il vero problema che è la programmazione industriale e la riconversione della produzione bellica in quella civile come tante volte avvenuto nella storia quando è convenuto alle imprese. Basti pensare al primo dopoguerra del ‘900. Dalla prima guerra mondiale uscivano notevolmente modificati gli equilibri economici e sociali, la guerra infatti costituì per l’industria italiana, soprattutto siderurgica e chimica, la grande occasione per uscire dalla stagnazione precedente, erano enormemente cresciute le produzioni di colossi come l’ILVA, l’Ansaldo, la Breda, la Fiat, la SAFFAT (la società siderurgica Terni) e la Regia Fabbrica d’Armi ternana, ecc. Era chiaro che la fine della guerra avrebbe creato serie difficoltà a questa industria crescita con la protezione dello Stato. Ma nessuna di queste fabbriche chiuse e, nel periodo tra la prima e la seconda grande guerra riconvertirono la loro produzione così come fecero, di nuovo, dopo il 1945.

L’esperienza della Valsella ci racconta una storia diversa fatta di lotte sindacali e di battaglie civili. I camalli di Genova che stanno in questi giorni boicottando le navi che trasportano armi sono un altro esempio di impegno umanitario. Se non queste battaglie cosa, se non ora quando. E’ tempo di cambiare segno alla storia altrimenti non ci rimarrà che continuare a erigere muri per fermare le vittime del nostro stesso egoismo.

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