Attualità, Sport

La leva calcistica del ’68

Nel ’68 non ero ancora nato, ma c’era già chi studiava, chi scriveva, chi faceva l’amore. Venne la contestazione, la chiamarono con il nome di quell’anno. Già a Berkeley, nel 1964, i campus americani erano in fermento e la protesta giovanile investì tutto mettendo insieme gruppi, classi e ceti prima distanti tra loro. C’era la guerra nel Vietnam, Che Guevara era morto da poco e la grande rivoluzione culturale in Cina si stava trasformando in guerra civile. In Europa, arrivarono la Primavera di Praga, il Maggio francese e il Movimento in Italia: Capanna, Toscano e Cafiero a Milano; Bobbio e Viale a Torino; Cacciari e Negri a Padova; Cazzaniga e Sofri a Pisa. A Roma, Franco Piperno e Oreste Scalzone. Ma anche Massimo Fagioli, il medico psichiatra, e Francesco De Gregori, l’artista cantautore che avrebbe accompagnato gli ultimi istanti della tua vita, proprio sul finire di quella bella presentazione che abbiamo visto distanti, ma vicini.

C’era anche chi, in Italia e in Europa, nel mondo stava già giocando a pallone mentre qualcun altro nasceva appena, senza sapere che sarebbe presto diventato campione. Paolo Maldini, il più forte di tutti. Il tempo non si fermò allora, andammo avanti senza conoscerci e dopo i tuoi quattordici anni, nell’estate del 1982, diventammo campioni del mondo. Il medico aveva già scritto i suoi quattro libri quando l’artista compose il Titanic, la nave britannica affondata per la freddezza di un iceberg il 14 aprile 1912. Lui compose la sua metafora di una umanità brutta che può andare verso il fallimento. Io in quei giorni avevo la febbre alta ma già amavo il calcio, così riuscii a vedere la squadra dei sogni, il Brasile battere 4 a 1 una Scozia che aveva pure segnato per prima con Narey, ma non aveva fatto i conti con la fantasia di Zico, l’altruismo di Oscar, il coraggio di Eder e Falcão. Poi l’incontrammo e la superammo noi. Poi mi addormentai.

Al risveglio, ripresi a giocare e studiare. Ero sereno. Al campo di allenamento, a settembre diventai subito il rigorista della squadra. Aspettai quasi un anno, prima che si presentò l’occasione giusta: ma non era più un allenamento. Così presi la rincorsa e calciai come sempre. Il portiere si buttò dalla parte sbagliata, ma il pallone impolverato rotolò fuori di un soffio proprio accanto al palo della porta del campo Bettini a Roma. Non ero freddo e mi emozionai. Ero triste ma misi lo stesso il cuore dentro le scarpe. Avevo la maglia numero dieci, ma ero più piccolo. Erano i miei dodici anni. Giuseppe Signori, Paolo Di Canio, Fabrizio Ravanelli, Diego Fuser in Italia. Didier Deschamps, Youri Djorkaeff e Marcel Desailly in Francia. Oliver Bierhoff, Stefan Effenberg e Mario Basler in Germania. I croati Zvonimir Boban e Davor Šuker. Lo spagnolo Fernando Hierro. Gli altri campioni che quell’anno, nel ’68 videro la luce per la prima volta.

Poi, qualche tempo dopo, il medico disse: «La vita degli esseri umani ha un inizio e una fine», mentre l’artista continuava a cantare la stessa canzone: «Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia». Anche tu, come me, avrai ascoltato questa melodia guardando le immagini dell’ultima bellissima presentazione toscana, che gridava ancora con più forza l’impossibilità di un fallimento. Poi il silenzio. Non ti ho udito, ma ti ho sentito e ho compreso. Il Sessantotto è finito male, invece io nella tua ultima notte sono riuscito a pensare a te. Grazie, per aver trovato il senso profondo da regalare ad ogni singola parola che pronunceremo ancora. Grazie, per aver visto la cosa impossibile e fermato il movimento del tempo proprio nel momento in cui già non esiste più. Coraggio, altruismo, fantasia e le tue altre parole.

Ciao.

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