Editoriale

Come non essere essere umano

Durante un recente incontro con gli studenti di un liceo romano un’insegnante ha portato all’attenzione dei ragazzi l’aspetto non marginale dell’impatto psicologico e filosofico dell’attacco atomico del 6 agosto 1945 a Hiroshima.

L’avvento della bomba atomica sembra abbia portato a una «qualità» etica nuova dell’esistenza umana che sarebbe il privilegio, poco invidiabile, dell’uomo della seconda metà del secolo XX. E’ stato analizzato il turbamento delle coscienze da parte di filosofi, scienziati, educatori ecc di fronte a questo che si considera come un evento che determina un netto punto di non ritorno nell’evoluzione antropologica.  Costoro considerano le nuove armi come intrinsecamente immorali e, dal punto di vista filosofico persino difficilmente catalogabili in quanto l’uomo sarebbe incapace di comprendere nella sua pienezza la tragedia di un atto così totalizzante.

Molti studiosi sono convinti che alle armi nucleari compete una «qualità negativa nuova». Questa caratteristica contrasta essenzialmente il  concetto stesso di arma.  La potenza delle armi nucleari è tale che supera ogni limite umano e rasenta i limiti del cataclisma. La difficoltà, se non la impossibilità dell’uomo di controllarne gli effetti devastanti  conduce ad  uno stato di straniamento. La presenza di armi nucleari in un numero ormai notevole di paesi (tra produttori e fruitori di ordigni nucleari) stende sul mondo la minaccia del possibile annientamento atomico attraverso quella che viene paventata come la «reazione a catena» capace di far esplodere l’intero pianeta.

Non a caso dopo il secondo conflitto mondiale la comunità scientifica orientò la propria analisi verso quella che viene definita “Psicologia della pace” come area distinta di studio e di intervento. Questi studi si svilupparono tra gli psicologi di molte università e centri studi di vari Paesi, durante la Guerra Fredda.

Il secondo dopoguerra  è un periodo storico caratterizzato da una decisa corsa alle armi nucleari che veniva percepita come una concreta minaccia alla sopravvivenza dell’umanità. In questo quadro, diversi psicologi orientarono le loro ricerche ed attività verso programmi finalizzati a contribuire a ridurre la possibilità di un conflitto nucleare. Finita la guerra fredda con la caduta del muro di Berlino nel 1990, rimase l’impegno di molti studiosi ad analizzare i fattori psicologici inerenti all’impatto delle nuove tecnologie belliche sulla psiche collettiva.

Attualmente, la psicologia della pace ha allargato i suoi campi di applicazione e di studio alla comprensione delle forme dirette di violenza, delle forme di violenza sociale strutturale, ed anche della violenza che opera in modo indiretto, attraverso la deprivazione dei bisogni di base delle comunità sociali.

L’evoluzione delle guerre in generale e l’avvento delle armi nucleari in particolare segna un ulteriore passo verso  la perdita della libertà dei popoli. Questo fattore si riverbera  non soltanto sui singoli individui che subiscono, pur non belligeranti, gli effetti  indiscriminati  dei conflitti (sono ormai il 93% le vittime civili delle guerre) ma sull’intera comunità internazionale.

Per le nazioni non capaci di produrre le nuove armi e di seguire il ritmo del progresso di quelle che sono dotate di mezzi pressoché illimitati. Ma anche le stesse nazioni produttrici saranno dominate dall’angoscia dei progressi dell’avversario e dovranno, di conseguenza, impegnare sempre maggiori risorse per  rimanere al vertice della capacità bellica.

Un punti di vista particolarmente interessante ci viene dalle riflessioni antropologiche di Günther Anders, studioso quasi sconosciuto in Italia ma che gode di grande considerazione negli ambienti accademici e scientifici.  La sua analisi matura a partire dagli eventi storici che hanno interessato l’intero arco della sua vita (1902 – 1992).

Le due guerre mondiali, i campi di concentramento nazisti e la bomba atomica, sganciata prima su Hiroshima e poi su Nagasaki, sono da lui definiti come dei punti di non-ritorno nel percorso dell’umanità.  Da questi momenti , secondo Anders, è necessario prendere le mosse per una riflessione concreta.  Nel 1933 Anders, ebreo,  si trasferisce prima a Parigi e poi negli Stati Uniti, in concomitanza con  l’ascesa al potere del nazismo.

In America il filosofo analizza le dinamiche relative all’organizzazione fordista della produzione con il sempre maggiore dominio delle nuove tecnologie sui rapporti umani. Nell’idea di Anders il lavoro dominato dalle nuove tecnologie, gli incessanti ritmi richiesti dalla produzione e gli avvenimenti di Hiroshima ed Auschwitz, vengono inquadrati  come i prodotti dello sviluppo tecnico-scientifico e del suo carattere pervasivo. Sono, infatti, gli eventi atomici di Hiroshima e Nagasaki a comprovare l’avvento di un uomo nuovo, la cui produzione consiste nell’autodistruzione.

Da queste riflessioni e su pressione della comunità scientifica si arrivò a varare La Dichiarazione sul diritto dei popoli alla pace, adottata dalla Assemblea generale delle Nazioni Unite il 12 novembre 1984. Si articola per la prima volta un complesso ragionamento intorno a quella che da qui in avanti verrà definita “Cultura di pace”. Lo scopo della Dichiarazione è quello di «garantire l’esercizio del diritto dei popoli alla pace, è indispensabile che la politica degli stati tenda alla eliminazione delle minacce di guerra, soprattutto di quella nucleare, all’abbandono del ricorso alla forza nelle relazioni internazionali e alla composizione pacifica delle controversie internazionali sulla base dello Statuto delle Nazioni Unite. »

Questo pur importante passo della comunità internazionale apparve ai leader mondiali del movimento pacifista  come una visione riduttiva del problema. Personalità come Gandhi, Martin Luther King, Johan Galtung, hanno lavorato, ognuno per proprio conto ma in maniera straordinariamente convergente, per  una idea di pace positiva. Questo punto di vista considera la pace non solo come assenza di guerra bensì come presenza di condizioni di giustizia reciproca tra i popoli che permettano a ciascun popolo il proprio libero sviluppo in condizioni di auto-governo.

In queste condizioni,  la pace è il risultato del modo in cui un popolo si relaziona con un altro popolo, del rispetto dei reciproci diritti e doveri riconosciuti dalla comunità internazionale. Molto più di un semplice trattato internazionale. Non è quindi la forma di governo che garantisce la pace, essa è garantita solo ed esclusivamente dal comportamento e dalle scelte degli individui che insieme costituiscono il comportamento e le scelte di un popolo.

Il 13 settembre 1999 l’Assemblea generale dell’ONU approvò la risoluzione 53/243 adottando con essa la Dichiarazione per una Cultura della Pace.

«La pace esiste quando tutti sono liberi di sviluppare sé stessi nel modo che desiderano, senza dover lottare per i propri diritti.»

Di qui nasce la necessità di una cultura della pace intesa come conoscenza diffusa e consapevole di tutti i fattori che contribuiscono a creare condizioni di giustizia reciproca tra i popoli.

 

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