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Un nuovo progetto per l’Italia

Dopo il fallimento della seconda Italia di Lippi, nel giugno scorso la Nazionale di Prandelli ha confermato la crisi del sistema calcio esistente nel Bel Paese: se è ancora incerta la paternità dell’espressione poetica che appartenne a Dante e Petrarca, meno sicuro appare il futuro del nostro movimento calcistico all’indomani della cocente e prematura eliminazione dal Mondiale brasiliano, che ha confermato il flop di Sudafrica 2010. All’inizio dell’estate dopo il positivo esordio con l’Inghilterra in Brasile si parlava come spesso accade in modo retorico di bontà del progetto, gruppo unito e sensazioni straordinarie, ma di lì a qualche giorno ci si è svegliati turbati da un brutto sogno che ha riportato tutti alla dura realtà di un calcio tricolore finanziariamente e tecnicamente ormai già da tempo in caduta libera.

E’ vero, lo abbiamo già scritto, la nuova Italia di Conte ha cominciato con il piede giusto: ma soffrire di insonnia – come lui stesso ha dichiarato – non è sintomo di buona salute, a meno che lo star in piedi di notte sia la conseguenza di una intuizione di qualcosa di più grosso, che oggi toglie il sonno ma domani porterà ad una bella realizzazione di sé. Ma comunque, sperando come peraltro recentemente accaduto di scalare nuove posizioni nel ranking mondiale grazie all’energia ed alla vitalità del nuovo tecnico della Nazionale italiana, bisogna fare i conti con numerose problematiche fondamentali del nostro calcio da affrontare e risolvere una volta per tutte in maniera sistematica e decisa: se nel 2006 la vittoria del titolo in Germania si affiancò oscurandoli parzialmente agli scandali di Calciopoli con tanto di polizia a Coverciano prima del trionfo mondiale, non può bastare oggi una doppia vittoria con Olanda e Norvegia per dimenticare ancora.

Continuare con il vecchio sistema senza rinnovare il calcio dalle fondamenta non è più ammissibile: se i proclami sono come sempre i migliori, nella realtà però le cose stanno diversamente. E’ stato appena eletto Tavecchio al vertice del sistema calcistico in Italia dopo una battuta infelice, due candidati diversi tra loro per età e profili – l’altro era il giovane Albertini – e un’infinità di polemiche, ma si continua a discutere della presenza di un consigliere troppo ingombrante, che indossa il giaccone federale e ha la mano protesa costantemente verso il nuovo presidente in carica. Parallelamente, su giornali e televisioni qualche professionista più attento ha provato ad andare a fondo nel progetto Italia: al di là di molte belle ma vuote parole, perché siamo ancora agli antipodi del modello vincente tedesco? Il punto è questo: lavorare sui giovani e sul nuovo progetto (ma qual è?), interessa veramente ai nostri dirigenti calcistici?

Recentemente un importante quotidiano sportivo ha dedicato ampio spazio al modello di scouting esistente in Italia, rapportandolo a quello presente all’estero: come i club cercano i talenti nel mondo, chi investe di più nel settore giovanile, come lavorano le società con i loro ragazzi, le seconde squadre sul modello spagnolo e via dicendo. Critica ricorrente è quella relativa alla presenza di troppi stranieri in Italia, che tolgono spazio ai nostri giovani calciatori: al di là della necessità di sgomberare il campo da un velato razzismo di fondo in realtà spesso esistente, basterebbe molto poco per cambiare tanto. Rispondendo a una semplice domanda, da rivolgere a chi prende le decisioni in società ed esborsa denaro: perché tutta questa sproporzione tra compensi, importanza dei ruoli, attenzioni dei media e prestigio personale tra Serie A e settore giovanile?

La mappa dello scouting in Italia parla ufficialmente così (fonte “La Gazzetta dello Sport” del 27 agosto 2014): Atalanta 10 osservatori, Cagliari 2, Cesena 4, Chievo 8, Empoli 4, Fiorentina 8, Genoa 6, Inter 9, Juventus 11, Milan 8, Napoli 4, Palermo 5, Parma 2, Roma 5, Sampdoria 6, Sassuolo 8, Torino 4, Udinese 15, Verona 5. La Lazio non ha osservatori ufficiali. Qualche esempio invece di spesa complessiva per gli osservatori: si va dai 50 (dati espressi in migliaia di euro) di Cagliari e Cesena agli 80 dell’Empoli, per salire alla fascia compresa tra i 200 (Parma e Roma) e i 300 (Hellas Verona); si arriva a 500 e poco più con Sampdoria e Fiorentina fino a 600 col Chievo; Atalanta, Inter, Milan e Sassuolo investono per 800, mentre la Juventus (1200) e l’Udinese (7.000) sono le squadre che spendono di più per l’attività professionale di scouting.

Questo è quanto dichiarano ufficialmente i dirigenti delle società calcistiche di Serie A in riferimento alla prima squadra. Tra loro ed i rispettivi settori giovanili c’è un abisso in termini non tanto di qualità e competenza (una documentazione incompleta è costata cara al Pisa, che ha perso la promozione ormai certa in B attraverso il ripescaggio, tanto per citare un esempio recente), ma di organizzazione e budget di spesa. Ovviamente ciò non vale per tutti, ma molti destinano poche risorse economiche ai responsabili di settore giovanile: figuriamoci ai loro collaboratori. Basterebbe il guadagno di un calciatore medio di Serie A per riconoscere la serietà, l’impegno e la professionalità di molte persone che invece faticano addirittura a ricevere un adeguato rimborso spese. Posso parlare in qualità di addetto ai lavori, avendo prestato la mia collaborazione per una importante società del massimo campionato italiano. Molte promesse insomma non vengono mantenute, mentre l’ipocrisia continua.

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