Cucina Pensante

Ma l’oloturia, l’avete mai mangiata?

cetriolo2La chiamano anche cetriolo di mare. Però non è una verdura, eh no. Si tratta in realtà di un echinoderma, come le stelle marine e i ricci. E, diciamocelo, ha un aspetto non proprio attraente, tanto da essersi guadagnata alcuni appellativi non del tutto commendevoli. Ma, come diceva il grande Ciccio Ingrassia, soprassediamo. 
Dunque: l’oloturia è brutta; diversamente bella si direbbe oggi, in questi tristi tempi di politicamente corretto, dove i ciechi diventano non vedenti e gli stupidi –perché esistono, sapete- sono diversamente intelligenti. Mi colpisce ogni volta l’ipocrisia del linguaggio odierno e non mi pare affatto che l’imperversare di termini come diversamente abili abbia cambiato molto la vita dei portatori di handicap. Io li ho conosciuti e ci ho lavorato; conosco la loro sofferenza e posso assicurarvi che il rispetto nei loro confronti si giudica da cose ben diverse da un termine burocratico. Non è da questi particolari che si giudica un giocatore, canta Francesco De Gregori. Ma tant’è. Diciamo allora che l’oloturia è diversamente commestibile. Ha abitudini singolari e non esattamente presentabili, come quella di espellere gli intestini quando è in pericolo. Non la presentereste a zia Egle, per intenderci. Ma si mangia.
E non è affatto male.
Devo ringraziare per questa esperienza mio figlio, che ci ha portato, me e mia moglie, in un ristorante cinese per cinesi. Ce n’è uno, a Torino, in corso Emilia, dove in certe sere vedrete la sala divisa in due porzioni contrastanti. Da un lato gli italiani, che si abboffano di pollo con le mandorle e maiale in agrodolce; dall’altro, allegre compagnie cinesi, spesso di soli uomini, che attaccano con fervore piatti dall’aspetto misterioso e infido. Cosa abbiamo mangiato? Zampe di gallina disossate, in una salsa lievemente piccante, intestini di anatra stufati, stomaco di vitello con piccoli fagioli neri, uova di cent’anni (cercatele in Rete se volete provare un certo frisson), rane sale e pepe, eccellenti –devo dire- ravioli brasati (l’unica concessione alle abitudini italiane), guanciale essiccato e infine –buona ultima- l’oloturia. Probabilmente essiccata e fatta rinvenire, tagliata in fette non troppo spesse e stufata con magnifiche verdure croccanti. Consistenza tra gommoso e gelatinoso, sapore delicato, salmastro. Aspetto piuttosto inquietante.
Ma volete mettere la soddisfazione di vedere la padrona del ristorante avvicinarsi al nostro tavolo, stupita e contenta di vedere tre dignitosi italiani che si contendono gli ultimi bocconi di oloturia? La cucina è cultura, ovvio. E la cultura è curiosità. Siate curiosi: a me lo ha insegnato mamma Elda che, ne sono certo, di fronte a quei piatti avrebbe storto il naso per poi assaggiarli e dirmi: “Ma, Nini, a l’è pa’ mal ‘sta roba sì”.

Alessandro Defilippi

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